Cellulari resi obsoleti dagli smartphone, televisori funzionanti ma col difetto di non essere digitali o ultrapiatti, computer superati dai nuovi modelli e via dicendo? Nel 2010 abbiamo buttato via 2 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti tech, e solo il 27% è stato “riciclato” spedendolo oltremare, in paesi del Terzo mondo con leggi meno severe (o inesistenti) sulle scorie tossiche.
È il risultato di una progettazione che ha programmato l’obsolescenza già nel design e fornito prodotti destinati a rompersi dopo pochi anni. «Una realtà frustrante per i più consapevoli», racconta l’irlandese Jane Ní Dhulchaointigh, giovane inventrice e imprenditrice/fondatrice di Sugru, società nata per risolvere il problema. Jane era così stufa di dover comprare aggeggi nuovi in continuazione che a un certo punto ha inventato un “prodotto” per riportare in auge l’idea di riparare ciò che abbiamo. E così, mentre studiava per il suo master in product design, a Londra, ha creato una pasta di silicone e polvere di legno riciclata da una falegnameria. «Puzzava, aveva un aspetto e un colore orrendi. Ma mi ha consentito di riparare lo scarico del lavello di cucina e modellare una maniglia ergonomica per il coltello delle verdure. Era un inizio». In 10 anni ne ha fatta di strada la sua “space age rubber”, come è stata definita poi dai media del settore; che hanno inserito Sugru tra le invenzioni del secolo.

Ma Ci piace anche segnalarvi lo slogan adottato da due trentenni "Repair, don't despair".
Ugo Vallauri e Janet Gunter, questi i loro nomi, l'anno scorso hanno dato vita al "Restart Project". Sulle orme dei "Repair Café" di Amsterdam o dei "Fixers Collective" di Brooklyn, organizzano nella capitale britannica dei "Restart Party": workshop mensili itineranti dove si impara gratuitamente a riparare il proprio gadget elettronico o elettrodomestico rotto.
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